Ottottave 2014 – classifica finale

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Ottottave 2014, VII edizione

Classifica Finale
i nomi dei vincitori

tutti i componimenti premiati durante la serata di venerdì 27 Giugno 2014 presso la Biblioteca delle Oblate di Firenze

 

Primo classificato
Pierino Pennesi, Allumiere (RM)

Leggi la poesia

Nel silenzio velato nevicava
in quell’ultimo inverno di battaglia,
il gruppo armato lento camminava,
lontano il crepitìo della mitraglia;
all’improvviso un sibilo arrivava,
metallo che riscuote la sua taglia
nell’esplosione annulla in un momento
uomini e cose ti trasforma in vento.

Guizza veloce contro un cielo spento
variopinto vociar di sciatori
sulla montagna è tutto un movimento
di snowboard, funivie, piste, trattori;
in mezzo a tutto quel divertimento
nipoti di sconfitti e vincitori
non sanno più che sotto neve e terra
resta nascosto il senso della guerra.

Il ferito imprecando i denti serra,
s’accorge d’esser vivo dal dolore
qualche compagno incolume l’afferra
mescolando a quel sangue il suo sudore;
i morti non andranno sottoterra
li coprirà la neve e il suo candore
a congelare nella notte nera
quella sconfitta fino a primavera.

Sventola sul rifugio la bandiera
l’impianto a pieno ritmo funziona,
la musica diffusa di balera
neanche per un’ora ti abbandona,
spensieratezza da sabato sera
scivola sulle piste e non perdona
alcun pensiero critico alla mente
in questa resa facile e incosciente.

E venne Aprile, verde e sorridente,
sopra un nemico vinto e cancellato
scarpe rotte marciarono contente
pensando all’avvenire rinnovato,
la Repubblica e la Costituente,
un nuovo ordinamento, un nuovo stato,
tanto lavoro di ricostruzione,
nuova ricchezza, grande produzione.

Ma dopo tutta quell’ agitazione
settant’anni di pace hanno lasciato
venire al mondo la generazione
sconfitta dalla legge del mercato;
la merce che non ha limitazione
nuove amare vittorie ha generato
sopra bisogni pieni di paura
ha sparso semi di guerra futura.

Quella presente contro la natura,
benché evidente, viene cancellata,
la patina lucente si misura
e l’immondizia viene sotterrata;
quest’urgenza che abbiamo d’aria pura
non sia una muta resa disperata,
possiamo ritrovare quelle fonti
e con la conoscenza fare i conti.

Ora i cannoni sparano sui monti
solo acqua sporca che si muta in neve
e gli anni raggrinziscono i racconti
di quel sogno fortissimo eppur lieve
che lanciava al futuro nuovi ponti
e proponeva al mondo nuove leve
per cancellar per sempre dalla storia
la resa, la sconfitta e la vittoria.

 

Secondo classificato
Alfredo Cenni, Arezzo

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Dorme il campione, all’ombra d’un giaggiolo,
Tutto è silenzio, ed ogni cosa scritta.
La luce del suo occhio ha preso il volo,
Ora il suo corpo è una magione sfitta…
E’ solo, come un morto sa esser solo,
Misera spoglia, vuota e derelitta,
Il suo Destino l’attendeva al varco:
Era un campione e aveva nome Marco.

Ebbe una vita degna di Plutarco.
Ruzzava, da bambino, ai girotondi,
E sulla spiaggia, in cameretta e al parco
Sognava con la biglia di Gimondi,
Non sospettando ch’era teso un arco
Pronto a scoccare, con fatali affondi,
Dei dardi di cangiante arcobaleno
Ma con le punte intinte nel veleno.

Lui, da ragazzo, andava come un treno,
Sopra al sellino, “il meglio”, su in salita,
E metro dopo metro di terreno
La fama diventò una calamita,
Che lo portò pian piano, nientemeno,
Dalla provincia alla ribalta ambita,
Dove un bel giorno, sopra la pelata,
Una bandana lo mutò in “Pirata”.

Quell’epica sportiva alimentata
Da grandi giornalisti ed ex campioni,
Tirò a quel giovanotto la volata,
In un crescendo di consacrazioni,
Fintantoché la gente, infatuata,
Lo idolatrò, con cori ed ovazioni,
Per vivere una scheggia della gloria
Che si legava ad ogni sua vittoria.

Così il Pirata entrava nella storia:
Al Col du Galibier calzò la benda,
E a les Deux Alpes in mezzo alla baldoria,
L’impresa sua si tinse di leggenda!
Ma all’Arco di Trionfo la memoria
Si rabbuiò per via d’una vicenda:
Aveva scorto tra la folla urlante
Il muso d’una scimmia sbeffeggiante…

Ma quale scimmia, quale idea alienante!
Si può fugare tutto, con gli amici!
E via! Per un alloro più esaltante,
E via! Per troneggiare sulla bici!
Da allora però sempre più esitante,
A domandarsi, con cattivi auspici,
Se quella scimmia con la lingua al vento
Fosse una burla o un sommo turbamento.

Ed il Pirata non fu più un portento.
La scimmia ormai a cavezza sulla schiena,
Scandiva la sconfitta ogni momento,
E strepitava, per rubar la scena,
Finché un vigliacco, colto lo sgomento,
Approfittò di quella illustre pena,
Spacciandogli magie da farne uso
Per non vedere della scimmia il muso.

Povero Marco, che tremendo abuso,
Sentire lo stoppino che finiva,
Nel ripensare a chi l’aveva illuso,
Mentre la barca andava alla deriva…
Ogni orizzonte gli sembrò precluso,
Scoprendo che non v’era alternativa,
Scoprendo che la resa più cocente
E’ quella che s’insinua nella mente.

 

Terzo classificato
Stefano Tonietto, Padova

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Tra gli ulivi a Cassibile quel giorno
non si muoveva un alito di vento.
Coceva il sole di Settembre a forno;
dovunque voci di straniero accento;
tante uniformi; ed in borghese, a scorno
della bandiera del Risorgimento,
Castellano firmava l’armistizio;
non la fine dei mali, ma l’inizio.

L’un, che ci avea condotti al precipizio,
si rancurava a Campo Imperatore;
l’altro, Sovrano al nobile servizio
della Nazione, calcolava in ore
la venuta del Giorno del Giudizio
hitleriano, tirannico furore
che discendeva a “raddrizzare i torti”,
occupando caserme ed aereoporti.

Tutto inutile? Via, tutti quei morti
sulle sabbie di Libia, sulle steppe
cosacche, tra i reticoli contorti
pensando alle ragazze con le zeppe
e alle mamme, alle case, al vino, agli orti…?
Grida Pluto il “Papè Satàn aleppe”,
e divora Lucifero la iena
che pugnalò Parigi nella schiena.

Avevamo le scarpe a malapena
per presidiare i passi d’Albania,
e siamo scesi alteri sulla scena
(oh, tradizione di buffoneria!)
per conquistarci un angolo alla cena
dei buongustai dell’antropofagia!
Più della resa incondizionata
pesò il saper d’averla meritata.

Già la Francia caduta era rinata
oltremare, ed il Greco di concerto
e già la terra serba e la croata;
e la Russia al tremendo colpo inferto
risorgeva qual Nemesi annunciata;
l’Inghilterra era eretta a viso aperto,
e officina l’America percossa
fu, arsenale mondiale alla riscossa…

…ma l’Italia? Nell’ora sua fatale,
capovolgendo il gesto di Canossa,
domandava in ginocchio al dio del Male
dello spolpato mondo in pasto l’ossa.
Fu sentenza di giudice imparziale
se il nostro sangue fe’ la terra rossa!
Ma il dolore non fu sterile, astratto:
ne nacque orgoglio – e voglia di riscatto.

Come il pensiero si traduce in atto
che modifica il mondo, così disse
uno, dieci, poi cento: “Io combatto”.
Come ad un bel morir molto si visse,
Italiani, Italiane ad un sol patto
contro la croce dell’apocalisse
s’alzarono – e all’uncino che violò
le loro carni opposero quel NO.

Resa, sconfitta, umiliazione… il Po
mormorava al passaggio dell’Ottava.
Contro l’Ariano in furia si levò
giù da’ monti, da’ colli, e dilagava,
cantando, il partigiano – e generò
per l’Italia d’Aprile non più schiava
in quell’alba novella della Storia,
dalla resa e sconfitta, la Vittoria. 

 


 

Gli altri componimenti finalisti

 

Maria Isabella Gariboldi

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Un giorno un re in cerca di evasione,
seppure avesse tante concubine,
tentar volle l’ennesima missione:
siccome non voleva porre fine
a questa ardente e forte sua passione,
notò fra tante belle ragazzine
un’avvenente e fresca Sulamita:
ed ebbe tosto l’anima invaghita!

La voglia di conquista era infinita;
fra sé pensò: “Pur questa al volo cogli!”;
dall’emozione, con tremanti dita,
un cantico le scrisse su dei fogli.
Averla o meno, ‘un gli cambiava vita
(infatti aveva settecento mogli):
ma questa l’attirava, casta e pura,
e per di più, sfuggente addirittura!

“Rapito son dalla tua pelle scura”
le disse, invero non con troppo tatto,
“e vedo che del gregge hai tanta cura…
Dall’innocenza tua son molto attratto;
non farmi fare brutta una figura,
ti prego, dammi retta o n’esco matto!
L’idea di averti a me parecchio piace…
Io piglio foco come una fornace!”

Ma nonostante il suo parlare audace,
la ninfa l’interrompe sul più bello:
“L’amore mio è forte e pur tenace
per un grazioso e giovin pastorello…
Rinuncia, o re, all’impresa e datti pace,
riprendi a poetar nel tuo castello;
rassegnati: tu ci rimani male,
ma voglio dimostrare amor leale!”.

Sconfitto, nel palazzo suo reale
rientra quel monarca assai depresso;
in lacrime, la testa sul guanciale,
sospira forte e il naso soffia spesso.
Con far deciso poi in terrazza sale
per rinfrescar le idee sull’insuccesso:
“Sonoro mi son preso un bel ceffone…
e dire che mi chiamo Salomone!

Chi mi conosce certo è testimone
del mio sapere e di ricchezze vaste;
in mezzo ad un proverbio e ad un sermone
ho preso a scriver pure l’Ecclesiaste.
Profuma il mio giardino di limone;
d’argento e d’oro fino, ne ho a cataste…
Prestante sono e di risorse pieno:
perché guardato lei non m’ha nemmeno?”

Riflette un poco, e quindi in un baleno,
gli piomba la risposta nella testa:
sia pur passione intensa e senza freno,
a un certo punto cede e poi s’arresta;
si quieta dal suo ardore il cuor nel seno,
se l’altro indifferenza manifesta…
Il vero amor l’onore assai difende:
a proprie spese chi l’insidia apprende!

L’Amore ispira i libri e le leggende:
talora idillio, a volte fiera lotta!
Se corrisposto, fa cose stupende…
Ma se ti scontri, alla fine scotta!
È insolito l’intreccio: un re si arrende;
la donna serba pura la condotta;
un pastorello ottiene la vittoria…
Per una volta cambia assai la storia!

 

Silvano Mantovani

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(… e intanto la Vittoria, spaparacchiata con i pollici sugli straccali, se ne restava sullo scranno, o meglio su un divano nel torpore, ad ascoltare … dunque si dia inizio con la parola alla Sconfitta che feroce rivolge critiche all’altra sventurata: la Resa …)

Di te nessun si fidi, traditrice!
Col tanfo che ti porti sulla pelle
Hai soffocato chi, prima felice,
Marciò a ragion virtù di una querelle
Certo, vittoria neanche a me si addice
Ma sulle braci giù dalle padelle
In questa resa priva di pudore
Hai rovesciato tutto senza onore.

(… ronfava soddisfatta intanto l’altra, la Vittoria, e rigirava il fianco suo ad ogni accento … quindi ora toccò alla Resa interloquire …)

Sì, sì, ma senti un po’ sei senza cuore
Tu, tu, che reiterasti irrazionale
Già, già, sapevi già, quel che maggiore
Nel miglior caso, egro e più esiziale
Ti si arrecava al danno con dolore
Ma niente tu, niente, tua innaturale
Orba in sostanza fu di posizione
La mossa che tenesti in conclusione.

(… allora prese nuovamente la parola, la Sconfitta …)

Ecco è così, ovino non leone
Sei tu, Cristo! Non senti già balbetti
Nel disonore implume all’inazione
Le brache ti calasti e a denti stretti
Speri nell’agognata assoluzione
Nuda pari il didietro e non permetti
In questa manifesta circostanza
Che io chiara ti riveli la mancanza.

(… la Resa allora nell’offesa affonda al maglio, lo tira su e lo scaglia verso la Sconfitta … e la Vittoria? Ancora tace la Vittoria …)

Va là che cosa dici è tracotanza
L’orgoglio sospingendoti sul fondo
Fu causa ahimè di livida mattanza
Sappi però che non c’è cosa al mondo
Peggior del tuo rifare con costanza
Gli sbagli già previsti a tutto tondo
Non vedi quanto sangue fu versato
Miserere! Ma quanto ti è costato?

(… a questo punto se a trarne una ragione si tirasse un dado, il caso vorrebbe che restasse in aria sospeso nell’incertezza della scelta …)

E se dicessi: troppo, nel palato,
Asprezza sperdi indegna oltre misura
Prolisso un vocalizzo incontrollato,
Sarebbe un eufemismo, una cesura.
Lo spiro assai ritorce e strozza il fiato
E inceppa incontinenze a dar la stura
Ben altro merito andrebbe in pegno
E avresti ciò per cui, ognuno è degno.

(… e dopo la sconfitta, anche la Resa chiosa, tuttavia, dal buco non si toglie un ragno … le posizioni sono ormai consolidate …)

Non io ma tu, tu sfori sempre il segno
Io sempre lì mi attengo a non passarlo
È la rovina, il frutto del contegno
Tuo, sai, tu rodi l’osso sembri un tarlo
Cancrena spalmi a quelli e non sostegno
Vedi, ti dico: accetta, più non farlo
Non crogiolarti all’indice del vezzo
Mai più tra i due non metterti di mezzo.

(… è dunque giunta l’ora, l’ora della Vittoria che si erge facendo capolino in questo strazio … sbadiglia, prima, poi prende la parola …)

Calma, calma, sapere qual è il prezzo
Naturale che paga il contendente
Che voi rappresentate nel ribrezzo
Giustappunto del fare inconcludente
Vi cinge entrambe il capo di disprezzo
La parte non si sceglie del perdente
È ovvio, si è scelti allora invece
Senza pietà sempre così si fece;

(… ormai, arzilla è la Vittoria, ciò detto, poiché sempre essa è la vincente, diritto ancora di parola ha nell’ottava della chiosa …)

E se dicessi: sì, meno di un cece
Voi valete, sarebbe ingrato il dire
Che l’esito si attacca come pece
Ma l’onta inganna e sfibra nel supplire
E a rimediare è inutile una prece
Ragion per cui se uguali son le mire,
Affermo allor, che mai nell’esistenza
Dell’altro ognun potrebbe farne senza.

(… e solo adesso precedendo quel mio dirvi arrivederci, come il bene, il male o viceversa, che l’altro vuole vivo in ragion dell’esistenza propria, si conviene perciò alla morale emersa dalla diatriba presente che racchiusa in coda sul distico finale si decifra affermativa nell’autocritica della Vittoria…)

 

Mattia Nicchio

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Vi narro una battaglia tra le tante
dell’epoca che vide i mori in Francia,
negl’anni in cui, per Carlo ed Agramante,
del Fato era ancor ferma la bilancia.
Fu certo una battaglia stravagante,
ché non fu vinta o persa con la lancia,
e s’anche infin prevalse il più robusto
non fu pel nerbo, ma pel verbo giusto.

Presso una selva, un dì, con slancio augusto
s’infransero gl’eserciti rivali:
è rotta generale, e nel trambusto
due fantaccini d’umili natali
si perdono tra fronda e tronco e arbusto,
ciascun per sé, poiché non son sodali,
e non potrebbero esserlo di meno:
Cisvaldo è franco, Arrone saraceno.

Per vie diverse van nel bosco ameno
quand’ecco un scorge l’altro, e l’altro l’uno:
si guatano con occhi di veleno
e in un istante il biondo è addosso al bruno.
Son male armati e senza palafreno:
lo scontro è lungo, misero e importuno,
e s’interrompe sol quando gagliardo
giunge un gigante, e ride assai beffardo.

I fanti s’alzan, sozzi d’erba e cardo,
gli chiedon che re serva, e che dio preghi.
«Non venero né cielo né stendardo,
e non c’è spada o motto a cui mi pieghi.
Sono Alifonte, e sol per me ho riguardo.
Ma a che tanto azzuffarsi? Mi si spieghi.»
«Io sono un fante moro, e lui cristiano,»
risponde Arrone «che c’è mai di strano?»

«Obbedite a un diverso capitano.»
dice il gigante «È tutto? Poca cosa.»
Cisvaldo fa: «Si pugna col pagano
per trargli terre, oppur spoglia preziosa.»
«Ai nobili andran gli ori del sultano,
e a chi ti manda in guerra e si riposa.»
Arrone parla allora: «Ben più immensa
sarà per noi l’etterna ricompensa.»

Fischia Alifonte, ride e fa: «Ma pensa!
Il dio tuo vuole morti gl’infedeli?
Questo cristiano un verbo ugual dispensa,
ma quando saran spenti i sacri zeli
v’attende a casa una ben parca mensa,
e il dio che non si sa dove si celi
è il dio dei pingui, e tutto avrà già scritto:
loro ancor sazi, e a voi nemmanco il vitto.

Il ricco vince, il povero è sconfitto,
giocando con le regole consuete.
Perché dunque vessate un altro afflitto?
Ad una stessa armata appartenete,
quella di chi s’inchina a chi sta ritto
e ha sol malanni in cambio d’ore inquiete.
Le greggi sperse e sparse, il campo incolto:
per un che vi daran, dieci v’han tolto.»

Si scrutano i due fanti fisso in volto
e il brando che ciascun teneva saldo
vien presto reso in pasto al bosco folto.
Tuonò Alifonte allor: «Arron, Cisvaldo!».
Suonò il saluto suo qual corno invòlto
e ancor qualcuno narra del ribaldo
che in guerra, attraversando le province,
andò dai vinti a dir come si vince.

 

Gianni Seviroli

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La resa, la sconfitta e la vittoria…
ed ecco che la mente già si atterra:
conforto cerca e bussa alla memoria,
ma sente un urlo: guerra, guerra, guerra!
E già, nel nome d’una falsa gloria
se n’è gettato sangue sulla Terra…
e quanto ancora se ne verserà?
È triste la risposta: chi lo sa!

Chissà perché si versa tanto sangue…
Si scora il core mio e la lingua langue.

Poi vai a veder: la guerra chi la fa?
il porco? la pantera? qualche rana?
la jena? l’orso? il topo? il cincillà?
Oppure il lupo ch’esce dalla tana
e va a terrorizzare la città?
Ma no… macché: la bestia è quella umana,
che fa la guerra e predica la pace.
E allora, perché mai? Perché ci piace!

Chissà perché ci piace tanto il sangue?…
Si scora il core mio e la lingua langue.

Ci piace l’uomo forte, vero, audace,
colui che non s’arrende neanche morto,
colui che è più potente, più capace,
che mentre sta morendo è già risorto,
e che se un sol momento siede e tace
vuol dir che in un pensiero fisso è assorto:
un grande impero fare del Päese
senza pietà per chi ne fa le spese.

Un grande impero immerso dentro al sangue…
Si scora il core mio e la lingua langue.

E mari e monti e fiumi e poi distese
il grande uomo vuole conquistare,
ché nella storia le sue grandi imprese
dovran per tutti i posteri restare;
nessun potrà mai dir “Quel dì s’arrese”,
e la sconfitta manco è da pensare:
vittoria e poi vittoria solamente,
ed oltre la vittoria… il nulla, il niente.

Vittoria… è mai vittoria in mezzo al sangue?
Si scora il core mio e la lingua langue.

E se per la vittoria è indifferente
se uccidere un vecchietto od un soldato,
si faccia dunque, e guai a chi venga in mente
di condonar la madre col neonato;
si spari sulla folla, sulla gente,
sul medico, sul prete, sul malato;
e se qualcun s’arrende e vuol perdono,
si spari in mezzo agli occhi come dono.

Quegli occhi senza luce ormai, nel sangue…
Si scora il core mio e la lingua langue.

È giusto inoltre far sentire il suono
dei mitra, delle bombe e degli spari:
è strano ma assai prende quel frastuono,
per cui venga un regista e con dei fari
illumini il massacro ed ogni tuono,
e mostri i morti col sangue alle nari.
E ancor per un momento chiedo udienza:
or vo alla religione per coscienza.

Per religione non si sparge sangue?…
Si scora il core mio e la lingua langue.

Quel Dio d’amor, di bene e d’onniscienza
al quale dona ognun la sua preghiera,
dall’alto della somma sua sapienza
dia fede all’uomo e quella forza vera
che basti a tollerar l’altrui esperienza:
il dio diverso fuor dalla frontiera,
nel segno di qualcosa di speciale:
l’amore, quello vero, universale.

Potrà l’amore mai fermare il sangue?
Si scora il core mio e la lingua langue.

L’amor che ci fa l’unico animale
capace di guardare dritto avanti;
l’amor che della vita è il dolce sale,
che uomini fa diventare santi;
l’amor che ci fa amare chi sta male,
che mette su di un piano tutti quanti;
l’amor che ha nell’amore la sua arma,
che parla al cuor, ci incanta e ci disarma.

 

Mario Trapletti

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Nel mezzo di un boschetto sorge amena
la Casa di Riposo ‘Il Purgatorio’.
Entrando v’imbattete in questa scena:

laddove per il solito è un mortorio,
lassù, al secondo piano, senza lena,
due vecchie van pietendo un colluttorio.

La prima par di nobile famiglia,
suntuosa nell’aspetto decadente.
Le lacrime le inzuppan la mantiglia,
la lingua batte dove duole il dente.
Col naso tira su la paccottiglia
sniffando come fosse rosa aulente.
“Mia cara, tu non sai quanto t’invidio,
te sgombra da ogni pubblico fastidio!”

Stan lì sedute sopra il pavimento,
poggiate, spalla a spalla, contro il muro.
Le voci sono un esile lamento.

Quell’altra, che par viva di sussidio,
è mesta qual dimessa campagnola,
con l’aria di chi è in punto di suicidio.
Le lacrime van via come una ola
con note di implacabil stillicidio.
La bocca muove a scatti da tagliola:
“Signora, lei non sa quello che dice:
lei invidia chi la invidia da infelice!”

Negli abiti incrostati di cloruro
di sodio si riverbera il dolore

di vite che non bramano futuro.

“Io son… io fui l’eterna vincitrice:
Vittoria! Per Romani e Greci alata,
avevo un culto e fama più che attrice
da Hollywood blandita e coccolata.
Ero io d’ogni bene la nutrice,
senza me l’esistenza era sciancata.
La vita mi pareva ed era un sogno
e tutti mi dicevan: “Io t’agogno!”

Non mette certamente buonumore
costei, che pur dovrebbe sprizzar gioia
e pare invece vinta dal languore.

“Io molto di me stessa mi vergogno,
perché nessuno mai della Sconfitta
provò né desiderio né bisogno.
Finisco giù in cantina o su in soffitta
perché senza cipolla né scalogno
fò pianger quelli cui son stata inflitta.
A chi gli tocco m’odia e mi disprezza:
nessuno cantò mai la mia bellezza!”

Or questa pare lì che attenda il boia,
s’affligge e no, non vede soluzione.
È a terra come solo può una stuoia.

“Tu pensa quanto tragica amarezza
travaglia l’esistenza a Berlusconi
ch’è solito stravincere in scioltezza
ma vive schiavo delle sue tenzoni.
È molto più sereno un Caparezza
che pure non è il Re delle canzoni.
Chi vince spesso perde tutto il resto;
più accorto gli è il perdente, pur modesto.

Davvero sotto il cielo è confusione
se piange e si rattrista nel profondo
chi fa del predominio il suo blasone.

“Sarà, cara signora, ma io attesto
ch’è dura una batosta digerire.
Lei prenda il buon D’Alema, cui funesto
è stato il crack del sol dell’avvenire.
Abraso fu via via dal palinsesto
e ad altri vede in pugno le sue mire.
Movesi, vecchierel canuto e stanco,
rischiando d’esser preda al giovin branco.

Se vince non è detto sia giocondo;
battuto, l’uomo spesso si sconforta.
Ma allora, chi è felice a questo mondo?

“Vittoria, sì, ma infine vince il banco,
finisci da inquilina al cimitero,
magari seppellita fianco a fianco
a quello cui portasti via il cimiero.
Tu intanto l’hai capito che io manco
di quello che tra i sensi fa il nocchiero?
Accentua il mio dolore l’esser cieca
ma credi, la mia invidia non è bieca”

Eh no, quell’altra proprio non s’è accorta
e adesso brancolando con la mano

la stringe, con un gesto che conforta.

“Signora, la mia vista non mi arreca
di lei nessuna immagine, ‘ch’è spenta.
La invidio d’un’invidia che si spreca
in quello che lei stessa per sé inventa:
non vede, eppur si macera e poi impreca.
Vedesse come sono macilenta
a furia di rovesci ed insuccessi!
Pace avrò almeno all’ombra dei cipressi?”

L’invidia le accomuna nella pena,
blindate in demenzial contraddittorio.
Ciascuna vede l’altra una sirena

e rosica ai baglior dell’irrisorio .

Si vince o si soccombe nell’arena,
 poi tutti ci arrendiamo all’obitorio.